Per insegnare la responsabilità individuale, torni nelle scuole la vera educazione civica

Tra le tante cose di cui dovremmo fare tesoro alla fine di questi giorni tremendi – abito dietro l’ospedale Sacco, dove sono nato, e basta fermarsi a guardare il traffico frenetico delle ambulanze per capire le dimensioni di ciò che sta accadendo – ce n’è una su cui rifletto da tempo e che mi sta particolarmente a cuore: l’Educazione Civica.

Non come idea astratta o come sapere generico, ma come materia scolastica. Sia chiaro: non è certamente colpa della scuola se gruppi folti di ragazzi e di adulti, di cui tanti certamente laureati, si assembravano fino alle quattro di notte a bere per strada e fuori dai locali dopo le prime richieste di quarantena assoluta, o se gruppi di studenti universitari solo dopo diversi giorni hanno smesso di postare selfie esibendo la necessità incontenibile di ritrovarsi a discutere, a studiare, a mangiare e a bere in nome di un diritto alla socialità che le istituzioni stavano limitando.

Però una cosa, da insegnante e da scrittore, me la chiedo adesso più di prima: se fin dalle elementari si facesse Educazione Civica, se questa materia fosse una costante quotidiana del percorso scolastico e non fosse invece ridotta a cenerentola peggio della musica e della ginnastica (fateci caso, tutte materie che portano il nome di Educazione), non avremmo qualche possibilità in più di agire secondo le regole basilari del vivere civile? Di acquisire una forma mentis civica, che asseconda in maniera spontanea le necessità collettive e che concepisce la responsabilità individuale come posizione politica e come atteggiamento imprescindibile della vita associata?

È naturale che crescendo ognuno diventi direttamente responsabile delle proprie azioni, ma è altrettanto vero che di queste cose uno studente può non sentirne parlare neppure una volta dalle elementari alla maturità. Se sempre di più la scuola deve farsi carico di veicolare nuovi tipi di educazione ritenuti necessari per il mondo di oggi (alimentare, stradale, sessuale, ecc.), l’educazione civica – quella che dai Greci era ritenuta il vero obiettivo della skolè – tarda ancora a essere considerata. Non esistono libri di testo (ai miei tempi sì, ma non lo comprava nessuno), i programmi sono più che altro generici auspici, la materia di volta in volta viene affidata a questo o a quell’insegnante, viene ritenuta secondaria o utile, importante o superflua, oscillazioni che rivelano quanto una vera idea di scuola come educazione alla cittadinanza manchi prima di tutto tra chi ne legifera.

Non mi è mai sembrato casuale che il nostro Ministero sia “dell’Istruzione” e non “dell’Educazione”, mentre è proprio di una scuola che sia anche educativa che abbiamo un disperato bisogno. È l’educazione, ancor prima dell’istruzione, a renderci cittadini di una democrazia e gli assembramenti sconsiderati dei giorni scorsi, gli assalti ai treni, agli aeroporti e ai supermercati, lo dimostrano: si è trattato di gente con ogni probabilità istruita, ma non per questo educata.

Quel poco di questa materia che si fa in classe, poi, si potrebbe fare in modo diverso, senza ridurre tutto a nozione, a qualche articolo di codice o di costituzione da mandare a memoria. Non è utile che sia, come era ieri e come è ancora oggi, un’appendice di altre discipline, o una scheda che si legge alla fine del capitolo di Storia o di Geografia (altra materia impoverita proprio nel mondo iperconnesso e globalizzato di oggi).

Non è sensato che la possa trattare indifferentemente questo o quell’insegnante alla fine della sua ora e in coda alla sua specifica materia, come sembrava proporre il governo precedente. La nostra Costituzione è la più bella del mondo ed è scritta in modo formidabile, i dodici principi fondamentali vanno letti e imparati, è utile conoscere cosa c’è scritto nella Costituzione Americana e fa la differenza sapere quando è nata l’Unione Europea: nessuno lo mette in dubbio. Tutto questo, però, rischia di non bastare e di non avere ricadute concrete sulla nostra vita, particolarmente su quella adulta.

Su questo sì che la scuola dovrebbe pensare alla trasformazione in azioni e in comportamenti degli insegnamenti che impartisce, ben di più che sulla preparazione al lavoro. Abbiamo bisogno di un’Educazione Civica che sia politica, ossia funzionamento della polis, dello spazio che abitiamo, delle regole per far stare in piedi l’apparato complesso della nostra società, di cui troppo spesso non conosciamo gli ingranaggi ma pretendiamo che funzionino gratuitamente, subito e al meglio.

Ecco perché l’Educazione Civica dovrebbe diventare un sapere prima di tutto laboratoriale, dove con gli studenti si leggono i giornali, si naviga sulle fonti web in modo guidato, si studia economia, così da far conoscere – tanto per fare esempi in tema con ciò che stiamo vivendo – cos’è un’epidemia, come ci si comporta in caso di emergenza, cos’è l’effetto gregge, come funziona un sistema sanitario, come è organizzata la macchina statale che permette la nostra assistenza e via dicendo. Questo sapere empirico, così trascurato rispetto a conoscenze teoriche a macchia di leopardo, che lo si voglia o no, è fare politica, quella di cui tanti politici di professione hanno paura che si faccia in classe, probabilmente perché credono che gli insegnanti la farebbero nei loro stessi modi.

Nulla di tutto ciò si può ovviamente improvvisare. Per fare questo noi docenti dovremmo essere formati – in pedagogia, in storia contemporanea, in informatica – altrimenti il rischio è quello di insegnare in modi disparati, poco autorevoli e, soprattutto, poco scientifici. Meglio ancora: ci si dovrebbe avvalere di esperti, di divulgatori nel senso più nobile di questa parola e aprire le scuole per farli entrare a insegnarci. Del resto “aula”, in greco, vuol dire “spazio aperto”, mentre le nostre sono troppo spesso spazi chiusi, a volte asfittici.

Quanto sarebbe utile, non solo per le contingenze che stiamo attraversando, che a scuola si spiegasse cos’è la cura dell’altro, i modi necessari per attuarla, che a volte prevedono la vicinanza altre la distanza, a volte l’aggregazione altre l’isolamento. Che si sapesse come funziona il nostro sistema sanitario e come funzionano quelli di molti altri paesi così da renderci consapevoli della fortuna di essere assistiti e dei doveri da assumere perché questo diritto continui a essere garantito a tutti, in primis ai più fragili. Altrimenti il rischio, nonostante tanti anni di studio, è di scambiare per libertà la violazione dei diritti degli altri e, sulla lunga distanza, di preferire in modo acritico l’uomo forte che impone quelle regole basilari a cui non ci si sa spontaneamente attenere. La democrazia, per esistere, richiede il senso civico: il prezzo da pagare per vivere in una repubblica democratica è il senso civico, che passa dalla rinuncia a un aperitivo e da sacrifici più o meno grandi. La dittatura non ha bisogno di senso civico, la democrazia, invece, non ne può fare a meno. Lo diceva meglio di tutti don Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia».

La democrazia prevede di mettere da parte il proprio interesse individuale ogni volta che questo lede quello della comunità: per molti è un concetto semplice, per qualcuno scontato, ma le scene dei giorni scorsi ci dicono che non lo è per una parte ancora considerevole della popolazione. La scuola, ne sono sicuro, può svolgere un ruolo importante per alzare questi numeri e per formare delle comunità rappresentative che poi propagheranno i loro atteggiamenti migliori proprio come un virus. È solo la scuola che può far sì che il sapere, come diceva Foucault, non serva solo a conoscere, ma a prendere posizione.

 

(FONTE: m.espresso.repubblica.it)