Latti, fermenti, razze: quello che le denominazioni dovrebbero dire secondo Slow Food

Il regolamento che nel 1992 ha istituito le denominazioni di origine è stato approvato dall’Unione Europea con l’obiettivo di registrare e proteggere i prodotti agroalimentari più significativi e identitari. Denominazioni che dovrebbero costituire una garanzia di qualità per i consumatori e una tutela di protezione e concorrenza leale per i produttori. Ma è davvero così? Slow Food presenta a Cheese la ricerca Le denominazioni europee tra valori identitari e mercato in cui si analizzano i disciplinari delle 236 Dop e Igp europee del settore caseario, e i risultati emersi non sono così positivi. Disciplinari disomogenei sugli elementi essenziali come la tipologia di latte, le razze animali:: «Abbiamo letto tutti i disciplinari con una lente “slow” valutando tutti quegli aspetti che stanno a monte della mera valutazione qualitativa organolettica. Senza buone basi di partenza, come la qualità dell’allevamento e dell’alimentazione degli animali, la naturalità dei processi produttivi, l’artigianalità delle pratiche, non è possibile conseguire una buona qualità  organolettica. Premesse fondamentali per ottenere un prodotto autentico, che rappresenti realmente un territorio e una tradizione, legato alla conservazione della biodiversità locale e alla salubrità degli ingredienti» spiega Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus. «I risultati della nostra analisi sono piuttosto sconfortanti. Questa ricerca vuole spronare produttori, le autorità competenti (innanzitutto quelle europee, ma anche nazionali e regionali), distributori, e ovviamente i consumatori, affinché si apra una riflessione su quale ruolo hanno oggi, e quale dovrebbero avere domani, le Indicazioni Geografiche».

Solo il 39% dei disciplinari obbligano a usare latte crudo mentre il 44% non indica alcun tipo di trattamento, lasciando liberi i produttori e ampliando le maglie su un aspetto fondamentale che condiziona fortemente la qualità finale del prodotto, oppure affronta in modo troppo vago il tema. Da ultimo il 15% dei disciplinari impongono la pastorizzazione o termizzazione, pratiche che annullano l’attività microbica del latte, precludendo la possibilità di caratterizzare i formaggi con i sapori dei rispettivi terroir.

Altro elemento preoccupante è il dato che emerge dalle indicazioni da fornire rispetto alle razze da cui deve provenire il latte: pensiamo solo che il 46% dei disciplinari non impone informazioni precise, mentre per noi di Slow Food la razza (locale) rappresenta un elemento fondamentale nel caratterizzare un formaggio e nel tutelare un territorio.

 

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