Questi marmi hanno slanci e ritrosie, pulsioni e passioni
Margherita Serra, artista bresciana d’origini lucane, laureata in architettura al Politecnico di Milano dopo aver ottenuto la maturità al Liceo artistico e il diploma all’Accademia di Belle Arti di Carrara, ha lavorato per il Comune di Brescia nel settore dell’Edilizia privata fino al 1994, quando ha scelto in toto il lavoro artistico. Aveva esordito nei secondi Anni Sessanta con matite e chine, oli di volti lividi e allucinati, e dagli Anni Settanta con sculture, erme soprattutto, che assemblavano elementi di più repertori formali e di più materiali, tra legno e bronzo, in un gioco di dissociazioni, forme tòrte, rotte e ferite, a riflettere su una umanità alienata e violata, con riferimenti allarmati alla società coeva e alla condizione femminile. Faceva affiorare trasalimenti e sussulti di vita segreta, specie in disegni-sudario quasi evanescenti, custodi di forme fermentanti e delicati sismografi di moti interiori.
Condensava istanze apparentemente antitetiche: l’inquietudine dell’informale, tesa a sondare la psiche e i sensi affondando fino all’estremo nel patimento della materia; e la fiducia in forme simboliche come strutture eterne della conoscenza, capaci di richiamare al dialogo con un deposito mitico, arcaico, stratificato nel fondo della coscienza di ogni uomo e nelle forme della vita d’ogni specie. Ed ecco nascere, verso gli Anni Ottanta, i primi marmi come partoriti dal grembo della terra e agiti da palpiti di vita, il soggetto giammai descritto, sempre risolto nell’operazione formativa. Già nel 1987 Elda Fezzi , nella monografia Genesi dal marmo, avvertì “mormorii e respiri, fiati e sonorità latenti in luoghi profondi”. La scultura come grembo plastico: sensuale, respirante.
Non c’è dubbio che l’artista nella sua ricerca abbia sempre mirato a questa intensità d’organismo vitale, a questa flagranza focosamente energetica e altrettanto teneramente recettiva. Per decenni ha sondato e assecondato blocchi di marmo in un gioco costante di fusione-frizione, di levigatura-granitura, mettendo in contrasto l’inerzia e la spinta vitale e vitalistica. Elemento dominante del suo lavoro per lungo tempo è diventato infatti l’innesto tra due blocchi o masse di materia cercando di suscitare, nella vitalità della pietra più dura -marmi bianchi di Carrara, rosa del Portogallo, neri del Belgio- lo scatto degli istinti carnali e la fluidità delle passioni dell’animo. Ma anche l’immedicabile dualità della vita, nell’incontro-scontro con l’altro da sé, o nello stesso tema della personalità, dell’io diviso (la frattura, la barriera tra interno ed esterno).
Una scultura che nasce nella vita
Margherita Serra è uno di quegli scultori per i quali si è tentati di parlare di ricerca di una spiritualità della carne, rilevando com’ella non si stacchi mai dal blocco di materia per una passione formale assoluta, ma voglia mantenere, fin dalla presa diretta, il senso del gesto che accarezza, plasma, asseconda, come alimentasse e incanalasse una fiamma, un flusso arterioso, un impulso erotico. L’opera – sembra che ci dica – nasce dalla parentela che si instaura tra il sangue dell’artista e il sangue della materia. Il corpo umano è dunque la sua ossessione, ma il corpo umano con tutto quello che c’è dentro, di passioni e pulsioni, che lei resuscita cercando l’identità tra il gesto che leva e piega e accarezza il marmo con la sostanza fisica, come assecondasse la naturalità, nel darle forma. Il corpo umano, ma il corpo della natura tutta, della vita biologica, vegetale, naturale.
Questa di Serra è una scultura che nasce nella vita, è energia nello spazio: il corpo è un frammento che deve ritrovare un’elementarità forte e tenera, una sciolta immediatezza, in cui la materia ora si offre lievitante, ardente e generosa, ora si ritrae contratta, reticente, pudica. Come in una gestazione, è una creatura che si prepara ad uscire alla luce. Per questo è così inscindibile nel lavoro di questa artista il vincolo col corpo, con la linfa vitale, che al fondo resta il limite stesso fondante e costitutivo del fare scultura, del parlare il linguaggio della forma (altro è il fare regia di oggetti e costruzione di materiali).
Ecco che Serra fa fluire la narrazione (sì, c’è anche racconto nelle sue opere), la pregnanza simbolica dei suoi marmi, ma insieme la chiude nel contegno trepido dei suoi involucri.
Forme che si liberano come organismi
Le forme si liberano e vivono una loro vita non soltanto per costruzione di rapporti architettonici e densità cromatiche tra luce e ombra, ma per capacità di trarre alla luce una vitalità latente nella materia più dura. Forme organiche, energetiche, nascono nel marmo nell’esercizio del levare la materia inorganica e crescono forti ma leggere, lievitanti nella luce, fino a farsi davvero organismo in liberazione, in slancio vitale, gonfio di respiro (ecco la serie degli Slanci vitali, che talora si sono erti in sembianze totemiche).
C’è una fortissima pulsione di sensualità fisica, che asseconda i bisogni formativi ed espressivi della materia stessa. È una visione dell’arte intesa come pratica di gesti antichissimi, come germinazione perenne, in segno di fusione tra l’uomo e la natura. Organismi in liberazione, Energie vitali, Slanci si sono chiamate infatti le opere della Serra, che sembrano svolgersi senza fine, nella persistenza di un gesto, violento e dolcissimo, di intrusione e carezza. E sottopelle fanno avvertire reticoli di linfe vitali e di materie sensuali: involucri da cui pare essere spinta a sgusciare fuori prepotente la natura femminile, che nello stesso tempo si rintana nei gusci marmorei a celare il mistero dell’eros.
Negli ultimi due decenni, nel sofisticato lavoro sui Corsetti, Margherita Serra ha continuato ad andare alla ricerca di una matrice calda e feconda della scultura, provocatoria, tenera e sarcastica, in un legame di necessità primordiale, intima e ferina con la materia, non volendo mai rinunciare alle prerogative del mestiere che, prima ancora che tecniche, sono estetiche: amore per la materia, corpo a corpo con essa, in definitiva erotismo plastico teso a far emergere una bellezza, una accalorata tensione emotiva che non può scindersi dalla materialità (come l’uomo dalla sua carne). I corsetti-busto esplicitano questa espansione rattenuta dello slancio vitale. Come ben ha colto Luciano Caramel per la mostra Corpi segreti nel 2008 a Roma in Palazzo Venezia: “La suggestione del corpo nascosto si contrappone alla pratica diffusa del disvelamento dell’intimità che in particolare è attributo della donna e si concretizza in una tensione ad una nuova attualità della scultura”.
Margherita Serra – che ha lavorato a Carrara coi tagliapietre e i marmorini delle Apuane e, dal 1992, a Venezia con maestri del vetro quali Danilo Zanella con la supervisione tecnica di Adriano Berengo e successivamente con Silvano Signoretto – ha un atelier moderno a Brescia e un altro “arcaico” nei Sassi di Matera, in quella che fu una chiesa rupestre: là si può cogliere con evidenza istantanea come i suoi marmi si facciano quasi apparizioni primordiali, si facciano luce che squarcia il buio; là si può capire subito il suo modo di giungere alla materia che riluce e quasi pare che non abbia peso, capire la sua visione di un mondo essenziale di slanci e morbide curve e anfratti che dicono tutto con forme mai del tutto compiute, compatte e levigate, domate, ma pur sempre in divenire, come il crescere della vita, con la sua energia, sia piena o recondita, a esclamare (e qui rubo la sentenza all’Arcadio di Cesare Brandi, a dire della verità della scultura): “C’è solo da essere, c’è solo da vivere”.
Il modo di lavorare della natura
Margherita Serra, liberandosi da un rischio di esibizione retorica, che deriva proprio dal contrasto tra la perfetta, tesissima politura delle superfici e l’incrinatura o sbrecciatura, fenditura o ferita, si è schierata dalla parte di quegli artisti del Novecento – sulla linea da Arp a Brancusi, da Moore a Viani – che hanno inteso esprimere una fiducia ostinata nella continuità della vita, espressa con la materia che pare crescere da sé nello spazio, come presenza generata da una pressione che ha origine dall’interno. Ecco perché ha messo a nudo e trasformato in valori essenziali le qualità delle materie usate, ecco perché ha simulato il modo di lavorare della natura, dalla crescita alla gravità, dal decadimento al caso. Nelle strategie della natura ha trovato una forza ben più saggia e costruttiva dell’arroganza umana. Come Arp, anche Margherita potrebbe dire: “Amo la natura, ma non i suoi surrogati. L’arte illusionista è un surrogato della natura…L’arte è un frutto che nasce nell’uomo, come un frutto su una pianta o il bambino nel ventre della madre”. Tra calotte lisce, strutture vertebrate, fibre muscolari e graniture geologiche, col rischio di seduzioni tattili di curve e incavi femminili, è emerso, dopo una fase –una gravidanza, appunto – di forme chiuse, il tema compositivo di interno-esterno, di blocchi che hanno concentrato la linfa vitale e insieme sono stati attratti ansiosamente dalla luce, come dire una materia vicina ad essere umana nelle metamorfosi, come insegnato da un pensiero di astrazione organica.
Organismi in liberazione, Energie vitali, Slanci e Pulsioni vitali, Respiri e Sospiri ha titolato, come si è già accennato, cicli di opere spinte a far corrispondere forme naturali levigate e rastremate all’estremo con una struttura dell’anima, finché le venature del marmo non si fanno sottese sottopelle come fossero una pulsante mappa arteriosa; o granite ad accidentare, quasi a contrarre la luce come a internarla per custodire il mistero delle germinazioni e pulsioni vitali più segrete. Negli Anni Novanta la ricerca si è volta a un suggello dello slancio vitale, in una espansione rattenuta nello spazio, eppur morbida e cedevole all’azione della luce, tra vampate di sensi e di sentimenti, in rapporto con la natura in divenire, con una vaporosità più propria di un flusso di coscienza, a integrare tutte le energie presenti nell’uomo. Ma rispetto agli Anni Ottanta si è rafforzato, oltre la rivelazione vitalistica di un’intimità della materia, l’esalare dell’energia in flusso del tempo.
Cucire il marmo: corsetti-corpo e corpi-indumento
Dal Duemila ha rievocato virtuosisticamente nei Corsetti di marmo (bianco di Carrara, rosa del Portogallo, nero del Belgio), porcellana e cristallo di Murano un artigianato di pizzi e merletti accostati al tessuto, nella lievitazione pura, viva e sensuale della massa di contro alla trama di trine e trafori. La scultrice ha risposto alla feticizzazione di un accessorio di abbigliamento femminile così effimero, e a tutta la seduzione consumistica, sublimandolo nell’idolo marmoreo che custodisce per sempre anche tutta l’allusione (e l’illusione) di plasticità ed erotismo. Una fluida tessitura di astrazione e natura. E infatti per i corsetti, allestiti su strutture imbullonate evocative di sottogonne, ma ancor più di corazze, se pur lasciano affiorare un ammicco sottile di seduzioni tattili di curve e incavi femminili, Luciano Caramel ha scritto di corpi assenti o corpi segreti. Questo specifico filone di ricerca si era profilato già nel 1997 in Studi per scultura caratterizzati da segni sottili, quasi punti d’ago, ricami, zigrinature, che rimandavano a cuciture, legacci, nastri, fino a sfociare nel 2001 nei primi Corsetti in cui la superficie del marmo trasmette turgore e morbidezza, sensualità e calore, ma stringe il vuoto. Non solo l’archetipo di un capo d’abbigliamento intimo, nato per celare, ma l’espressione di un mondo femminile seducente, intrigante, pur sempre oscuro nel suo grembo d’eros primordiale.
È notevole di per sé l’uso dei vetri, delle ceramiche e dei marmi più ostici per lavori allusivi di cucito, passamaneria e ricamo, ma è stato sviluppo coerente della ricerca di Serra, perché già i suoi blocchi antecedenti – fossero torsi, fianchi umani sinuosi, garretti torniti, o totem verticali -, cresciuti e sciolti nello scorrimento della luce, paiono avere, più che massa, membrana e ritmo. Infatti la puntinatura a trina o merletto si fa essa stessa struttura, ritmo reiterante delle forme. Ecco perché Caramel – che dalla monografia Margherita Serra del 1993 ha accompagnato il lavoro dell’artista bresciana in momenti decisivi, come nel 2000 nell’antologica alla Civica Galleria d’Arte Moderna a Gallarate e nel 2008 nella mostra al Museo Nazionale di Palazzo Venezia a Roma, di cui ha curato il catalogo Margherita Serra. Corpi segreti– ha visto la suggestione del corpo nascosto, ed è il corpo della scultura che nasce quasi espulsa dall’interno della materia, mossa da una pulsione compressa, ma mirando ora a eternare una mitologia del quotidiano, rapida e sapiente.
Il corsetto diventa corpo e il corpo indumento. Per questo non vale qui evocare la distinzione praticata dagli antropologi strutturalisti tra un corpo umano crudo ed uno cotto, per ricordarci sempre che anche il nudo è vestito, vestitissimo. Perché nei corsetti-busti non è questione di opposizione tra selvaggio e civilizzato, ma tra vitalità naturale e feticcio. Nei corsetti di Serra c’è anche il ritmo della schermaglia, la danza della seduzione e dell’irretimento e poi, a bruciapelo, il corto circuito dell’emozione e del desiderio nella sintesi “violenta”. Una meditazione sulla quintessenza del femminile tra scavo, levigatura ed emblematizzazione.
Dalla massa alla proiezione del vuoto
Un grande studioso di estetica come Gillo Dorfles -autore di un saggio nel catalogo Margherita Serra. Corsetti e dintorni per la mostra allestita nel 2004 da Martina Corgnati in Villa delle Rose a Bologna- ha ammirato la sapienza dell’artista che rende duttile e leggiadro il marmo tradizionalmente sontuoso e imponente, e ha accompagnato l’evoluzione da un embrione o da una forma biologica a una matrice di introflessioni ed estroflessioni, di concavità e convessità sempre più complesse, fino ai Corsetti che si sono presentati quasi come “una soave caricatura marmorea” dell’abbigliamento femminile di solito considerato frivolo, reincarnandolo in un archetipo immaginario di un certo manifestarsi del femminino; così quei Corsetti rilanciano anche l’eco di tanta attrezzeria surrealista ambigua, inquietante, nel tema della donna-feticcio, della bambola, del manichino. Per questo l’attenzione in questi lavori non deve rivolgersi tanto alla massa, con cui in passato l’artista ha lottato per farne qualcosa di fluido, bensì alla proiezione del vuoto, sottolineata anche dalle sottogonne-traliccio che reggono le opere.
Per arrivare negli ultimissimi anni a esperimenti di rielaborazioni simboliche con cartapesta, ferro, acciaio e fibra ottica, sul filo della leggerezza, per disegni nello spazio che, mentre si rivelano come sonde autonome, esploratrici anche di fantasmi della psiche, ci ricordano, come sentenziava Paul Klee, che “l’arte non riproduce il visibile, ma rende le cose visibili” e qui trasmette l’anelito a un movimento perpetuamente transitorio dell’esistenza, unendo lo svolgersi dei corpi nello spazio col trascorrere dell’energia psichica, dell’energia sorgiva e metamorfica dell’eros, ma anche tutta la cerimonia dei sensi, la ritualità misteriosa dell’incontro tra forze opposte, maschile e femminile, vita e morte., nella conquista di una certezza plastica di sbalorditiva semplicità.